Bruna Condoleo
Esistono espressioni artistiche capaci di rasserenare l’animo, di lenire gli affanni quotidiani e di attutire le eterne domande esistenziali che fin dalle epoche primordiali assillano la mente umana. E ci sono linguaggi che ci turbano, ci pongono di fronte alle tematiche più scottanti della nostra vita, stimolando dubbi e palesando le innate incertezze. Cristiano Quagliozzi, benché molto giovane, esprime la sua complessa interiorità con un’arte che inquieta per la precarietà delle forme, per le tonalità cromatiche, per l’ambiguità tematica, per il mistero che le immagini celano. Ritratti, o meglio autoritratti, che si fanno e si disfano dinanzi ai nostri occhi grazie ad un segno dinamico e sfuggente; volti che, pur rammentando in qualche modo alcune deformazioni espressionistiche del ‘900, sono prive di ogni senso di degrado morale e psichico, ma tentano soltanto di “ri-comporsi” da un indistinto per trovare faticosamente la loro forma, oppure sono lineamenti accennati che subiscono una cancellazione e sembrano liquefarsi in una sorta di ritorno della materia nel nulla.
Alcuni ritratti, disegnati o dipinti, appaiono come sinopie, linee tracciate per un ulteriore approfondimento, fragili impronte di una decostruzione in cerca di nuova consistenza figurativa. La medesima ansia esistenziale è alla base delle sue foto concettuali, scatti multipli ravvicinati nel tempo che indendono fermare le tappe di una dissoluzione materiale, precostituita dall’artista. La maschera in bronzo che ripropone il volto di Cristiano, un alter ego misterioso ed immobile, viene lasciata bruciare su di una “graticola”, come in un martirio medioevale dell’anima: la maschera arde e si consuma lentamente, quasi paga di una catarsi metaforica che non può generare dolore fisico, mentre essa sembra assistere senza drammi alla propria fine. Lotta tra vita e morte, dunque, eterno dualismo filosofico, ma anche speranza di rigenerazione, desiderio di una rinascita che l’arte può dare, più delle parole e più delle azioni. Pittura, disegno, fotografia: Cristiano insegue varie forme d’espressività artistica che possano meglio tradurre la propria problematicità, il senso di fugacità delle cose, e nel contempo la voglia di eternità. Il ritratto, come già detto, tema prediletto di questa ricerca, prende il sopravvento assorbendo in sé ogni possibile discorso figurativo. Il suo volto, frammentario ed alienato da ogni riferimento allo spazio reale, realizzato con poche tinte, spesso monocromato, è portatore di un gesto emblematico, quel gesto pittorico con cui Cristiano Quagliozzi, in una drammatica narrativa di transitorietà, cerca di superare l’abisso esistente tra la fugacità della vita e la riaffermazione della stessa: molta strada davanti a lui!
Francesca Pardini
Di fronte alla prima serie di opere su carta di Cristiano Quagliozzi, la vista sembra quasi annebbiata, non messa bene a fuoco. Forse c’è bisogno di avvicinarsi per capire se è la luce del momento che non gioca a nostro favore o se, piuttosto, è quell’opacità intrinsecamente trattenuta nel foglio che ci invita a cercare una maggiore definizione, una maggiore trasparenza.
Arrivati quasi ad un palmo dall’opera, ecco, lì bisogna guardare, ma non solo: bisogna fermarsi.
Se in un palinsesto di affreschi sovrapposti nel tempo l’occhio si addentra alla ricerca del frammento più antico, ecco qui affiorare lentamente dalla carta quella dimensione atemporale dove tutto era ancor prima di essere. Nel caos e nell’indistinto di un magma grigio, come un fossile che si distingue appena dalla pietra su cui è incastonato, si scorge inizialmente un foglio di dimensioni più piccole, creato casualmente da una combinazione di tecniche ma volutamente mantenuto all’interno dell’opera, come per la necessità di dare un limite spaziale, una cornice e un supporto alla traccia. Il segno comincia a prendere forma divenendo lo schizzo di un volto, di un uomo ancora anonimo, asessuato, di cui solo le parole e i pensieri possono fondarne l’identità.
Come l’impercettibile andamento del pulviscolo delle galassie e dei corpi cosmici, così l’intermittenza delle lettere “cosmo, atmosfera, pulviscolo”, divengono parole, quindi segni che si fanno forma, e di lì forma che crea identità.
Gli strati sovrapposti si incrociano e si sostengono l’uno con l’altro in un discorso di rifrazione meta-linguistica in cui la tecnica, il segno linguistico e l’immagine fluttuano tra più livelli di significato generando un corto-circuito dal forte impatto visivo.
La non definizione assoluta delle tracce, dei segni e delle pennellate dimostrano il piacere della sperimentazione, quella che permette a Cristiano Quagliozzi di non arrivare subito alla “Forma perfetta e ideale” e la stessa che permette a chi osserva di non “passare” semplicemente di fronte all’opera, ma di dedicargli il tempo adatto per ritrovare, in questi delicatissimi “appunti”, anche le tracce di un compasso, e di una forma tonda, e di pensare, anche solo per un attimo…alle ruote di Leonardo che apparivano tra i suoi schizzi anatomici.
Giovanna dalla Chiesa
Ogni distruzione porta con sé una rigenerazione, ogni morte una rinascita. L’ accesso all’arte presuppone un processo di graduale spoliazione da pregiudizi di ordine mentale, morale e visivo come condizione per la creazione. Nel bel mezzo del delicato frangente di transizione tra lo stato della vita ordinaria e quello “straordinario” dell’arte, Quagliozzi ha scelto di immolare la propria effigie, sottoponendola alla “prova del fuoco”, al vaglio “catartico” di ogni verità, registrando attraverso una serie di scatti fotografici l’atto della trasformazione, privatamente, in assenza di ogni pubblico, per poi reinserirlo, insieme ai disegni e agli acquarelli, che ripropongono e moltiplicano infinitamente il suo volto, nel luogo della mostra. Lo spostamento ad un momento temporalmente anteriore all’evento espositivo e anche spazialmente diverso, produce così una dilatazione spazio-temporale davvero interessante, un non-luogo in cui la parte più tradizionale del lavoro, finisce per ritagliarsi un percorso tra i due poli, evadendo la condizione del manufatto, per assumere quella larvale di una sospensione fluttuante tra la vita e la morte, che si coagula in cellule primordiali di roteante gestazione.
Rievocando il comportamento dell’uomo primitivo dinanzi alle “prove” fondamentali della propria esistenza, lo storico delle religioni Mircea Eliade sintetizza così il problema: “una volta nato l’uomo è incompleto; deve nascere una seconda volta, spiritualmente; per divenire completo deve passare da uno stato imperfetto, embrionale, allo stato perfetto di adulto…l’esistenza umana raggiunge la sua pienezza attraverso una serie di riti di passaggio, di iniziazioni successive”.
Preso tra la pulsante oscillazione tra conscio ed inconscio, l’uomo contemporaneo,invece, una volta raggiunta la propria “individuazione” è capace di dilatare la dimensione dell’Io a quella del Sé, di riscoprire la coincidenza tra Sé e Mondo, fra Sé e Cosmo, conquistando quell’equilibrio, che una volta toccato, non perderà mai più e potrà solo semmai, ampliare, sino a farne una solida piattaforma destinata a salvaguardarlo nei cammini più impervi e difficili.
La mostra è dunque un ponte tra i due stati, essa segna la via, che lo spettatore, liberato da un punto di vista centralizzato, gerarchico e dogmatico e dai relativi pregiudizi visivi, può ripercorrere, apprendendo la dimensione del cammino iniziatico, già svolto dall’artista, simile per l’entità dell’impresa, a quello dell’astronauta nell’universo, ma rivolto verso l’interno, alla ricerca del cosmo interiore.
“Al verso 16 del Salmo139 del testo ebraico della Scrittura”, scrive Elémire Zolla, è scritto: “I Tuoi occhi videro il mio golem e nel Tuo libro erano scritti tutti i giorni a me destinati prima che ne esistesse uno”. I “Concetti astrali” di Quagliozzi, sono forme ancora avviluppate in sé stesse, al limite tra il non-nato del feto e il resto di un volto dopo la morte, grumi di trascendenza, trovati in un viaggio “endonautico”, sciolti, come durante il sonno, dal proprio corpo e proiettati altrove, esistenze che precedono l’essenza in un “progressus ad ultimum” praticamente infinito.